Presentato a Roma il Rapporto su Lo stato della popolazione nel mondo 2007: Liberare il potenziale della crescita urbana dell’UNFPA, Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione, edizione italiana a cura di AIDOS.
Ne hanno parlato Daniela Colombo presidente di AIDOS, la rappresentante dell’UNFPA, Giulia Vallese, il direttore scientifico del WWF, Gianfranco Bologna e il deputato dei Verdi e sottosegretario all’Economia e finanze Pier Paolo Cento.
Daniela Colombo e Giulia Vallese ne hanno riassunto i punti principali: la forza delle motivazioni che spingono a lasciare le campagne per la città; il fatto che l’urbanizzazione non aumenti quantitativamente la povertà, ma la renda solo più visibile; la tendenza all’espansione delle città medie, molto più che delle megalopoli, soprattutto in Asia e Africa, e quindi il bisogno di concentrare maggiori risorse e assistenza internazionale verso le città con meno di 500 mila abitanti.
Il Rapporto sfata un buon numero di luoghi comuni, a cominciare dall’idea che l’aumento della popolazione urbana sia dovuto soprattutto all’immigrazione dalle campagne, mentre è statisticamente molto più rilevante l’incremento naturale della popolazione, soprattutto in paesi dove il tasso di fecondità è alto e il 50 per cento della popolazione ha meno di 24 anni e sta entrando nell’età riproduttiva. E allora, dice Vallese, una cosa da fare sicuramente è “migliorare i servizi per la salute riproduttiva, rendendo effettivo il diritto di scelta di individui e famiglie rispetto a quando e quanti figli avere”, e concependo i centri per la salute riproduttiva anche come strumento per rendere più vivibili le periferie, come sta facendo AIDOS con il Centro per la salute delle donne in Burkina Faso.
È questa una possibile soluzione anche per il rischio “di erosione di quel ‘capitale sociale’, fatto di relazioni umani, civili e solidaristiche, coltivate ed evolute nei secoli del vivere rurale, e che deve essere ricostruito su altre basi in seguito all’inurbamento”, come ha messo in evidenza il demografo e senatore Massimo Livi Bacci.
Occorre però considerare che “i vantaggi della crescita urbana sono annullati dai modelli di svillupo”, ha sottolineato Gianfranco Bologna. “Negli ultimi 50 anni i sistemi naturali del pianeta hanno subito una pressione divenuta ormai intollerabile e che costringe un miliardo di persone a vivere in baraccopoli che non hanno niente di umano, mentre 1,2 miliardi stanno raggiungendo livelli di consumo del tutto simili ai nostri, ma assolutamente insostenibili a lungo termine. Ma a questo problema “negli ultimi 30 anni si sono cercate solo soluzioni parziali, dei palliativi o poco più”.
Governare la crescita urbana, che ha un impatto sull’ambiente a livello globale e non solo là dove tale espansione si verifica, necessita di uno sforzo di concertazione sempre più difficile “a causa della progressiva delegittimazione del sistema multilaterale, che è stato il peggior danno arrecato al mondo dall’amministrazione Bush”, ha denunciato Bologna.
Pier Paolo Cento ha sottolineato come, di fronte a una popolazione che nel 2030 sarà di circa 8 miliardi di persone, 5 dei quali concentrati in città, “gli indicatori economici tradizionali, centrati sul prodotto interno lordo, siano sempre più lontani dal descrivere le condizioni materiali della vita delle popolazioni e quindi non siano più sufficienti a capire la realtà, e tanto meno ad agire per cambiarla”. Mentre occorre una risposta culturale e politica, che deve partire anche dall’Italia “poiché gli effetti del cambiamento climatico, dovuto anche all’impatto delle aree metropolitane, si fanno sentire sulle città costiere anche in Italia, e la desertificazione riguarda anche ben cinque zone del nostro paese, tra cui la pianura padana”.
Per questo Pier Paolo Cento annuncia che “è allo studio il bilancio ambientale, che dovrebbe integrare il bilancio pubblico, mentre a settembre avvieremo un tavolo per l’elaborazione del bilancio pubblico di genere”, in cui il governo sarà chiamato a dare risposte ai bisogni diversi di uomini e donne, come già sta avvenendo in alcuni paesi in via di sviluppo, ad esempio la Tanzania, per superare le discriminazioni che ancora oggi, anche in Italia, impediscono di cogliere appieno il potenziale delle donne per lo sviluppo.